09 Dic 2012
dicembre 9, 2012

Storia della Terapia Cognitiva

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Stefano Tacca – Psicoterapeuta Borgomanero Novara

Spesso nel raccontare una storia, di qualcuno o qualcosa, si parte da un padre o una madre. Da chi ha generato e dato vita a quel qualcuno o qualcosa.

Da bravi esseri umani ci appassioniamo a quel genitore, alla sua storia, a ciò che l’ha portato al concepimento, scoperta, nascita, vita della sua “creatura”, perché rimarrà sempre un po’ sua, anche dopo secoli.
Come di fronte a un bimbo di pochi giorni scrutiamo la forma della bocca, il taglio degli occhi e la grandezza delle orecchie e con emozione ritroviamo lì un po’ dei suoi genitori, similmente agiamo nei confronti delle altre cose, anche di una teoria scientifica.
Che questa sia un’operazione più o meno lecita e giustificata è argomento pieno di controversie, che non è il caso di affrontare in questa sede.

Qui nasce il primo problema nel raccontare la storia della Terapia Cognitiva.
Una sorta di naturale allergia di chi scrive (e molti altri colleghi “cognitivisti”, sicuramente) a riconoscersi in un unico padre fondatore, o magari due o tre, rafforzatami dal pensiero di Karl Popper, base epistemologica che a lungo è stata (e per molti ancora lo è) un pilastro del cognitivismo. Pensiero secondo cui una buona teoria scientifica, per esser tale, deve essere costruita in modo da poter essere falsificata. Non importa chi l’abbia enunciata, arriverà un giorno in cui sarà falsificata da una teoria migliore. Questa, secondo Popper, è la linea di demarcazione tra scienza e non-scienza.
E la Terapia Cognitiva è e vuole continuare a essere scienza, non filosofia, religione, arte o altro.
Per dirla in maniera brutale e forse un po’ semplicistica: i padri fondatori, se mai ci siano, verranno spodestati.
E da bravi cognitivisti ci auguriamo ogni giorno che ciò avvenga.
Grazie per il contributo, per le preziose intuizioni. Vi citeremo nei libri di storia. Ora andiamo avanti.

Ma nonostante ciò, per esigenze narrative, nel raccontare una storia, conviene partire da qualche parte.
Si potrebbe partire da quel ad opinionem dolemus (“la nostra sofferenza è in funzione delle nostre valutazioni soggettive”) di Seneca, frase dal sapore molto cognitivista…ma sarebbe un po’ lunga ripercorrere duemila anni!
Allora partiamo, come si fa di solito, da quello che viene considerato un fondatore della Terapia Cognitiva, con buona pace dell’allergia per questi termini.
Questo signore corrisponde al nome di Albert Ellis, nato a Pittsburgh nel 1913 e morto a New York nel 2007.
Bisogna subito notare un paio di cose.
La prima: lui chiamò la sua terapia prima Rational Therapy (RT) e negli anni Rational-Emotive Therapy (RET) e infine Rational-Emotive Behavior Therapy (REBT), ultima e attuale definizione.
Come si vede, nessuna traccia di cognitive, almeno nel nome.
La seconda: le nuove teorie e pratiche cliniche di Ellis non erano e non sono, come ancor oggi qualcuno semplicisticamente crede, un’evoluzione o sviluppo del comportamentismo. Va sottolineato non tanto per prender le distanze da una teoria, quella comportamentale, che ha riscontrato molti successi e molte critiche (come tutti gli orientamenti in psicoterapia), ma semplicemente perché si tratta di un’inesattezza storica, e anche molto diffusa.
Albert Ellis si era formato come psicoterapeuta psicoanalista, quindi le origini della sua teoria sono da ricercare più nella psicoanalisi e meno nel comportamentismo.
È lo stesso Ellis nei suoi scritti (Ellis, 1962) a raccontare di come, una volta terminata la formazione, la sua psicoanalisi personale e iniziando a lavorare come psicoanalista “ortodosso”, ovvero mettendo in pratica alla lettera tutte le teorie e tecniche della psicoanalisi classica di allora, si trovò deluso e frustrato, iniziando a metterne in dubbio sia le basi teoriche che l’efficacia delle tecniche terapeutiche.
Secondo Ellis i pazienti faticavano a migliorare, ci mettevano molto tempo quando succedeva e c’erano molti rischi di ricadute.
Si poteva fare meglio.
Mutò ben presto il suo modo di fare terapia, dalla psicoanalisi “ortodossa” alla psicoterapia a orientamento psicoanalitico, ottenendo subito risultati migliori.
Ma non gli bastava ancora.
Sviluppò una sua pratica clinica molto più direttiva, diede importanza agli stati coscienti direttamente osservabili, alle credenze irrazionali, abbandonò concetti edipici in cui non si riconosceva, iniziò a considerare e studiare la mente come un elaboratore d’informazioni, il ruolo del linguaggio e del dialogo con sé e con gli altri, la genesi e mantenimento dei disturbi psichici.
I risultati, secondo Ellis, erano più incisivi e duraturi di quanto si potesse sperare di ottenere con le teorie e le tecniche psicoanalitiche.
Così nel gennaio del 1953 Ellis non si definiva più psicoanalista, e nemmeno terapeuta ad orientamento psicoanalitico, ma terapeuta razionale. Aveva dato alla luce un modello teorico e clinico del tutto nuovo per quegli anni.
Per la cronaca, nel 1982 Albert Ellis, grazie al suo lavoro, è stato valutato dall’Associazione Psicologi Americani come il secondo più influente psicoterapeuta, dietro a Carl Rogers (primo) e davanti a Sigmund Freud (terzo).

Ci vollero altri 14 anni, anni in cui comunque le teorie e tecniche di Ellis andavano diffondendosi e ampliandosi, perché la parola “cognitive” fosse resa famosa.
Ci pensò Ulric Neisser con la sua opera del 1967: Cognitive Psychology.
Ma Neisser era uno psicologo, non uno psicoterapeuta. Nella sua opera trattò la metafora dell’uomo come elaboratore d’informazioni, descrisse diverse attività mentali come la percezione, la memoria, l’immaginazione, il problem solving, tutti processi di costruzione legati alle informazioni sensoriali. In un’ottica psicologica, non d’intervento clinico, anche se queste formulazioni divennero poi preziose per i terapeuti cognitivi.

Bisogna allora fare un passo indietro per rintracciare chi usò la parola “cognitive”, pur non portandola immediatamente ad essere famosa.
Si tratta di un certo Aaron Temkin Beck, nato nel Rhode Island nel 1921 e attualmente full professor di Psichiatria nell’Università della Pennsylvania.
E, stranamente o no, anche lui di formazione psicoanalitica.
Sembra che Beck, già dal 1964, pur partendo da alcune concezioni espresse da Ellis (che poi Beck negli anni avrebbe ampliato, modificato e aggiunte di nuove) preferisse definirsi come terapeuta cognitivo piuttosto che razionale o razionalista.
Ed eccolo. È lui. A tutti gli effetti il primo terapeuta cognitivo della storia!
Non sappiamo se si trattò di una fortunata intuizione di “marketing” in anni in cui vi era terreno fertile per la parola “cognitive”, o se qualsiasi nome avesse scelto Beck avrebbe avuto lo stesso successo, e sinceramente poco importa.
Per inciso, a chi scrive, orgogliosamente terapeuta cognitivo, poco piace la parola in sé, in quanto da l’impressione di richiamare nel pubblico una grande attenzione per i processi mentali (o cognitivi, appunto) a scapito di quelli emotivi, altra credenza comune del tutto da sfatare, soprattutto con i più recenti approcci del cognitivismo, che si sono buttati nello studio dei processi emotivi con ottimi risultati.
Ma andiamo con ordine.
Beck applicò le sue teorizzazioni e tecniche terapeutiche prima con i disturbi depressivi e poi con quelli d’ansia, con notevole successo clinico.
Questo successo fu descritto, replicato e dimostrato secondo canoni usati negli ambiti della medicina, e fu una delle prime volte che ciò avveniva per una psicoterapia (Ruggiero, 2011).
Inoltre il ricorso ad alcune tecniche di tipo comportamentista fece sì che la terapia, oltre ad essere come già detto spesso ritenuta erroneamente un’evoluzione del comportamentismo, assumesse il nome di Cognitive Behavioral Therapy, CBT (in Italia: Terapia Cognitivo Comportamentale, TCC), nome che contribuisce a mantenere vivo l’equivoco.

Questa rivoluzione portò la psicoterapia cognitiva a espandersi negli anni ‘70 e alla sua consacrazione negli anni ‘80. La teoria ben si coniuga con le neuroscienze, gettando le basi fin da quegli anni di una reciproca e proficua collaborazione per la spiegazione e comprensione di molti processi mentali, patologici e non.
Aumentavano i terapeuti cognitivi, le ricerche, gli studi, i protocolli di cura, negli Stati Uniti e tra gli studiosi di molti altri paesi.
Il 30 dicembre 1972, in Italia, Vittorio Guidano e Giovanni Liotti fondarono a Roma la S.I.T.C.C., Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, che a oggi conta più di 3000 soci.

I critici, com’è sempre auspicabile che sia, non sono mancati.
Ed è stato anche grazie a queste critiche che, verso l’inizio degli anni ’90, pur godendo ormai di ottima fama internazionale e buoni risultati dimostrabili, vi è una prima crisi della Terapia Cognitiva.
Come le teorie di Ellis e Beck nacquero dalla crisi in cui si trovava psicoanalisi negli Stati Uniti, era forse il momento di assistere alla nascita di una nuova impostazione terapeutica?
La storia non andò così. O almeno non rinnegando il nome.
Alcuni terapeuti continuarono ad applicare le tecniche di Beck e a seguire la sua scuola. Questa terapia è definita Terapia Cognitiva Standard, per distinguerla dalle altre terapie cognitive. Nel mondo è comunque la terapia cognitiva più conosciuta, diffusa e applicata (Semerari, 2000).
La crisi del cognitivismo è stata sì innescata anche da critiche esterne, ma sicuramente e ancor più da una presa di coscienza di alcuni terapeuti cognitivi, e prima di loro dagli studiosi della Scienza Cognitiva, della necessità di ampliare alcune impostazioni teoriche e di correggere certi trattamenti terapeutici, se non addirittura creare nuove procedure e tecniche ove quelle standard non fossero adatte. Ovviamente ogni cosa fosse stata fatta doveva corrispondere all’assunto fondamentale del cognitivismo: verificabilità attraverso studi controllati.
A farne le spese non fu la definizione “cognitive” di Beck, che sopravvisse. Piuttosto pagò quel “rational” di Ellis.
Nacque così la Terapia Cognitiva Post-Razionalista, o Secondo Cognitivismo, o Neo-Cognitivismo, o Costruttivismo (anche se quest’ultimo termine richiede ulteriori precisazioni).
I “nuovi” cognitivisti iniziarono a definire quelli di Ellis e Beck approcci razionalisti, definizione che entrambi gli autori respinsero, preferendo comunque Terapia Cognitiva Standard (Semerari, 2000).
Insomma, se l’utenza è già abbastanza confusa nel distinguere tra una psicoterapia a indirizzo psicodinamico, cognitivo, sistemico, della Gestalt ecc., qui le cose si complicano anche per un volenteroso studente di psicologia.
Tutti sotto lo stesso nome, tutti terapeuti cognitivi, ma impegnati in vari modi a rispondere alle esigenze terapeutiche e teoriche, tanto da far nascere una moltitudine di risposte a questa “crisi”, a volte anche distanti tra loro.

Alcuni si sono buttati sulla riscoperta delle pratiche comportamentali, ri-concettualizzandole e ri-definendole alla luce delle teorizzazioni della terapia cognitiva e delle neuroscienze, recuperando e raffinando concezioni di tali teorie ed estendendole, sviluppando tecniche di stimolazione dei processi emotivi e affettivi (Ruggiero, 2011).

La critica secondo cui la terapia cognitiva non fosse adatta a certi tipi di disturbi (i cosiddetti pazienti gravi o difficili) ha ricevuto risposta dai lavori e risultati di Carlo Perris (per le psicosi) e la nascita del concetto di metacognizione del gruppo di Roma formato da Dimaggio, Semerari, Carcione e collaboratori (applicato ai disturbi di personalità, ma non solo).

Qualcuno ha criticato la Terapia Cognitiva Standard di occuparsi solo del presente del paziente, non considerando abbastanza gli aspetti legati al suo passato.
Il filone della terapia cognitiva sviluppatasi dal pensiero di John Bowlby e dalla sua Teoria dell’Attaccamento ha fornito un’ampia base teorica e concettuale allo sviluppo della persona e dei disturbi psichici.
Bowlby, psicoanalista britannico, fu poco preso in considerazione dai suoi colleghi di allora. Le sue osservazioni dirette (non racconti di un adulto di fatti accaduti, secondo lui o il suo terapeuta, trenta o quaranta anni prima!) sui legami tra bambino e figura di attaccamento, le sue solide basi d’ispirazione evoluzionista (Charles Darwin) ed etologiche (Konrad Lorenz) non ebbero successo nella Società Psicoanalitica Britannica di cui era membro allora, più impegnata in questioni proposte da Melanie Klein riguardo a fantasie infantili inconsce e cose simili.
Le teorie di Bowlby erano in aperto contrasto con quelle della Klein.
Così il primo volume della sua importante e rivoluzionaria trilogia, Attaccamento e Perdita, l’Attaccamento alla Madre, pubblicato nel 1969, e destinato a gettare le basi d’innumerevoli studi e a cambiare il modo culturale di intendere il rapporto adulto-bambino, passò quasi inosservato tra i colleghi psicoanalisti. Pressappoco tesso destino per i due volumi successivi: La Separazione dalla Madre del 1972 e La Perdita della Madre del 1980.
Anche se Bowlby tentava di far rientrare nei suoi lavori alcuni concetti freudiani, ai colleghi psicoanalisti di allora non piacquero quelle idee così lontane dalle loro formulazioni teoriche.
Nessuno è profeta in patria, come si suol dire.
Ma ai cognitivisti quelle osservazioni scientifiche e replicabili, in grado di aprire innumerevoli scenari e ipotesi esplicative coerenti con l’evoluzionismo e con le neuroscienze piacquero, eccome.
Non è un caso se nel loro storico volume del 1983, Cognitive Processes and Emotional Disorders, Guidano e Liotti riportavano in prima pagina la dedica “To John Bowlby”.
In particolare Giovanni Liotti continuò su questo filone di pensiero, sviluppando una terapia basata sui concetti di disposizione innata, evoluzionismo e sistemi motivazionali.

Altra grossa critica che arrivò ben presto al cognitivismo fu quella della metafora dell’uomo come elaboratore d’informazioni.
Lo stesso Neisser, già nel 1976 con il testo Conoscenza e Realtà, critica la precedente metafora da lui stesso proposta come rigida e non corrispondente alla realtà.
Lo psicologo cognitivo Jerome Bruner ha sottolineato come si sia data troppa importanza al concetto di informazione a discapito di quello di significato.
Dalle considerazioni di Bruner torna in auge un approccio che ha un punto di partenza del tutto diverso: il Costruttivismo.
In questo caso, manco a dirlo, la confusione aumenta ancora.
Lo psicologo statunitense George Kelly fu il primo a usare il termine, con il suo testo La Psicologia dei Costrutti Personali, edito in due volumi nel 1955. Quindi, quasi contemporaneamente alle formulazioni di Ellis. Ma pare che Kelly abbia sempre respinto la definizione di terapeuta cognitivo.
Se Kelly ne fu il fondatore, bisognerà aspettare un po’ prima che le idee costruttiviste, ampliate e rivedute, prendano piede.
Alcuni concetti di base del cognitivismo vengono letteralmente stravolti dalla moderna teoria costruttivista: non può esistere una conoscenza oggettiva, un ordine indipendente dall’osservatore, è l’attività mentale di ognuno a costruire la realtà.
Uno dei principali esponenti di queste formulazioni in ambito terapeutico è stato sicuramente Vittorio Guidano (1944-1999), anche se lui stesso preferiva definirsi con l’espressione di post-razionalista.
Conoscenza tacita, teoria motoria della mente, coerenza del sistema-persona, organizzazione di significati personali, nozione di complessità del sé, sono alcuni dei suoi concetti fondamentali.
Sarebbe davvero lungo e complesso descrivere nel dettaglio le interessanti e complesse intuizioni di Guidano, che si estendono dalla pratica clinica all’epistemologia, e che sono ancora oggi fonti di dibattiti, approfondimenti e sviluppi in molte sedi, accademiche e non.
Salta comunque all’occhio, anche senza inoltrarsi nello specifico, quanta distanza ci sia tra queste concezioni e quelle di Beck.
Terapia Cognitiva Standard e Terapia Cognitiva Post-Razionalista.
Sempre Terapia Cognitiva, pur così lontana.

Oggi stiamo vivendo quella comunemente conosciuta come la third wave, o terza ondata del cognitivismo.
Probabilmente sarebbe più corretto parlarne tra qualche anno, ci siamo troppo in mezzo e ancora non sappiamo bene che cosa stia succedendo.
Come già detto, più si sommano fatti più le cose si complicano.
La terza ondata non sembra essere scaturita da una crisi vera e propria. Si mescola pacifica con quello che già esiste portando i suoi carichi di novità.
Quest’immagine di calma e gentilezza ben si sposa con la novità principale della terza ondata: la Mindfulness, con il suo pioniere Jon Kabat-Zinn, e con la riscoperta dell’importanza del corpo e il superamento del dualismo cartesiano corpo e mente (Damasio, 1994).
Posizione osservativa anziché la logica razionalista, nessun tentativo di modificare, ma accettazione, la compassione per sé (self-compassion) al posto del dialogo socratico.
Come ha scritto Ruggiero (2011), la Terapia Cognitiva sembra dare le spalle alla Grecia e a Socrate e rivolgere lo sguardo all’India e al Buddha.
Comunque sia, anche in questo caso si è ben lontani dalla Terapia Cognitiva Standard.

Come è naturale che avvenga, dopo questo mezzo secolo o poco più, le cose si influenzano e mescolano tra loro.
Così capita che nascono terapie che riprendono concetti comportamentisti, mescolandoli alla Mindfulness, e grazie agli ottimi risultati diventano la terapia elettiva per il trattamento del disturbo borderline di personalità, la Dialectical Behavior Therapy, DBT di Marsha Linehan.
Oppure capita che si usi il concetto di metacognizione, rivisto (e per certi aspetti “semplificato” rispetto a quello di Semerari), si riprendano e modifichino alcune tecniche di Ellis e si usi la Mindfulness un po’ “adattata”, che si chiama in questo caso detached mindfulness, ed ecco nascere la Terapia Metacognitiva di Adrian Wells.
Credenze cognitive standard, schemi complessi, terapeuta emotivamente coinvolto è la miscela di Jeffrey Young e della sua Schema Therapy.
“Accettazione” e “impegno” e “Mindfulness“, mescolate in altro modo ancora per la ACT (Acceptance and Commitment Therapy) di Steven C. Hayes.
E si potrebbero portare altri esempi.
Questo eccesso di semplificazione solo per dire che a oggi, almeno al momento, non si parla di scissioni o rinnegamenti di questa o quell’impostazione, piuttosto di ecclettismo nel mescolare le une alle altre.

La confusione potrebbe risiedere nell’imbarazzo di scelta e nella difficoltà di conoscere le numerose proposte.
Ma la moltitudine di proposte è da sempre ricchezza, non certo limite.
La possibilità di coglierne una, o più, modificarle, cambiarle, cucirle sulla nostra persona, sui nostri pazienti e sul modo di essere terapeuti è una ricchezza impagabile.
Chi crede che la Terapia Cognitiva sia solo protocolli da applicare ne rimarrà forse deluso o incredulo.
Non abbiamo un’ortodossia da seguire, un padre fondatore da adorare e non tradire.
Se così non fosse stato, non sarei diventato Psicoterapeuta.

BIBLIOGRAFIA:

Bara, B.G. (2005), Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino.
Bowlby, J. (1969), Attaccamento e perdita. L’attaccamento alla madre. Bollati Boringhieri, Torino, 1972.
Damasio, A. (1994), L’errore di Cartesio. Adelphi, Milano, 1995.
Ellis, A. (1962), Ragione ed emozione in psicoterapia. Astrolabio, Roma, 1989.
Greenberg L.S., Paivio S.C. (1997), Working with emotion in psychotherapy. Guilford Press, New York.
Guidano, V.F. (1988), La complessità del sé. Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano, V.F. (1991), Il sé nel suo divenire. Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Guidano, V.F., Liotti, G. (1983), Cognitive processes and emotional disorders. A structural approach to psychotherapy. Guilford Press, New York.
Kelly, G.A. (1955), La psicologia dei costrutti personali. Teoria e personalità. Raffaello Cortina, Milano, 2004.
Liotti, G. (1994), La dimensione interpersonale della coscienza. La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Ruggiero, G.M. (2011), Terapia cognitiva. Una storia critica. Raffaello Cortina, Milano.
Semerari, A. (2000), Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Laterza, Roma-Bari.

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